Nella mia casa paterna, quand’ero ragazzina, a tavola, se io o mio fratello rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava:
«Basta così! È mai possibile?! In questa casa non si può mai stare tranquilli… ».
Era la consuetudine, un rumore più alto del solito o una cosa che cadeva dal tavolo, gli resuscitavano antiche sofferenze. I suoi racconti erano fatti di momenti bui, dietro ad una intercapedine del muro dove un giaciglio e un tavolino li accoglievano per le emergenze. La voce del nonno che intimava al silenzio più assoluto faceva da sfondo ai respiri carichi di paura.
Quel giorno non fu uno dei falsi allarmi che il portinaio lanciava come un pierino. Era sicuro, erano entrati nel palazzo per arrestare tutti gli ebrei del quartiere. Non c’è più nessuno, nessuno, diceva il portinaio, sono fuggiti tutti! Loro, stipati dietro all’intercapedine, in silenzio trattenevano il respiro. Ma vennero davanti alla porta, sentirono qualcosa cadere sul pavimento. Fu un attimo, spinsero tutti giù per le scale e poi su una camionetta.
«Io mi ricordo bene» diceva il babbo, «qualcuno mi ha spinto e sono caduto in strada. “Corri, corri più che puoi”!». Il babbo ubbidì, l’autista di un tram lo fece salire e così si salvò. I nonni non tornarono mai più. Gli eccessi che da ragazzina mi sembravano incomprensibili mi si rivelavano nella loro verità, racconto dopo racconto arricchito di tragici momenti.
Era il sedici ottobre del ‘43. Per ordine del ministro dell’interno tedesco Himmler, il colonnello Kappler irruppe in molti quartieri di Roma tra cui lo storico ghetto di via del Portico d’Ottavia, dove vivevano il babbo e i nonni ma pure molte altre famiglie ebree, segnalate da Mussolini stesso in una lista redatta pochi anni prima. Ancora in pigiama, le famiglie, sorprese alle prime luci dell’alba, furono costrette a raccogliere poche cose personali e salire sulle camionette. Pochi giorni prima due delegazioni ebraiche erano state convocate dal colonnello nazista Herbert Kappler, per ordine del Terzo Reich, allo scopo di consegnare cinquanta chili d’oro in cambio di trattamenti di favore. Il patto non fu rispettato, il ricatto si consumò e l’oro, insieme a libri e oggetti di inestimabile valore storico e religioso furono inviati in Germania. Nessuna indulgenza e nessuna pietà. Il Vaticano, pur sapendo, evitò di porre il veto alla triste sorte dei deportati. Caricati su vagoni per il bestiame uomini, donne e bambini furono destinati ad Aushwitz.
Gli occhi di mio padre bambino videro il dolore e lo strazio di quanti con loro venivano strappati alla libertà. Ogni ricorrenza di quel sedici ottobre ne rinnova il ricordo con le lacrime agli occhi e io ascolto come se fosse la prima volta per non dimenticare. E nel ricordo sono così tesa dal racconto che agito le gambe sotto il tavolo come se mi scappasse la pipì; la sedia traballa, le ginocchia urtano il tavolo… gli oggetti precipitano come certi eventi della nostra Storia.
Paola Santini